I FRENI








Tratto da: MOTOTECNICA
AZIONAMENTO IDRAULICO
“la pressione, esercitata in una regione qualsiasi di un fluido, si trasmette in tutte le direzioni con la stessa intensità”. Così recita il celebre principio di Pascal, a significare che qualora un fluido venga posto in pressione entro un circuito chiuso, questa si trasmette in ogni punto invariata. Ricordando che la pressione matematicamente parlando altro non è che una forza su unità di area (P = F/A), l’immediata conseguenza è che, tramite un circuito idraulico, è possibile trasmettere e amplificare una forza da un punto ad un altro attraverso dei pistoni mobili. La moltiplicazione (o eventualmente la demoltiplicazione) della forza segue il principio cosiddetto del “torchio idraulico”, in altre parole cresce (o diminuisce) proporzionalmente al rapporto dei quadrati dei diametri dei due pistoni mobili. F = f(A/a) = f[(πD2/4)/( πd2/4)] = f(D2/d2). E’ proprio quello che avviene in un impianto frenante ad azionamento idraulico: la pompa di comando è equipaggiata di un pistone di diametro ridotto, mentre le pinze hanno uno o più pistoni di diametro molto superiore. Un classico sistema frenante diffuso sulle moto stradali prevede un comando dotato di pompante da 16 mm azionante due pinze a quattro pistoni a diametro differenziato (due coppie da 30 mm e due coppie da 34 mm). Il rapporto tra le forze secondo quanto detto avanti risulta numericamente: [2(30+30+34+34)]2/(16)2 = 256. vale a dire che se si esercita una forza di 10N (circa 1kg) sulla pompa, questa viene amplificata 256 volte sui dischi freno. Occorre poi aggiungere che in tutti gli impianti idraulici esiste anche una prima amplificazione della forza di natura meccanica: il braccio di leva sul comando è sempre molto più elevato di quello agente direttamente sul pompante, nella misura di circa 10:1 nelle leve del manubrio. Ciò a significare evidentemente che la forza risultante è notevolmente superiore a quella esercitata dalla mano o dal piede: ecco perché si riesce a fermare in breve spazio una moto che viaggi anche a 200 km/h con la sola pressione di una o due dita sulla leva. Passando all’analisi funzionale delle pompe, queste essenzialmente possono dividersi in due macrocategorie: quelle tradizionali ad azione tangenziale e quelle radiali. La nomenclatura, deriva dall’orientamento del pompante rispetto alla leva, considerata idealmente come un arco di cerchio. Nelle pompe tradizionali il pistone scorre lungo una direzione appunto tangenziale ed è azionata tramite un piccolo dente di rinvio disposto a 90° rispetto alla leva. Nelle pompe radiali il pistone è in posizione ortogonale alla leva ed è azionato direttamente da essa. I due differenti posizionamenti danno origine ad una diversa resa dell’impianto: per costruzione, la posizione radiale garantisce legge di quasi perfetta linearità nell’amplificazione della forza di comando. Difatti la direzione della forza impressa dalla mano o dal piede per quella a pedale, è parallela a quella diretta sul pompante: entrambi i bracci di leva giacciono sulla stessa retta, per cui al variare dell’angolo di rotazione intorno al fulcro il rapporto di moltiplicazione è semplicemente dato dal rapporto tra questa due lunghezze. Solitamente le pompe radiali hanno diametri del pompante maggiori, ma comunque in diretta dipendenza da un altro parametro che usualmente ne accompagna le specifiche, vale a dire la lunghezza del braccio di leva, cioè della moltiplica meccanica (una pompa radiale da 16X18 ha un diametro nominale del pistone di 16 mm e un braccio, misurato rispetto al fulcro della leva, di 18 mm).
IL FLUIDO DI LAVORO
In linea del tutto teorica l’unico requisito che il fluido contenuto nel circuito idraulico dovrebbe soddisfare è appunto l’essere allo stato liquido, dal momento che la sua incomprimibilità è indispensabile affinché la pressione si trasmetta inalterata. Ciò deve mantenersi durante il funzionamento, dunque al variare di pressione e temperatura: in particolare dal lato pinza, dato che su di essa viene inevitabilmente convogliato gran parte del calore sviluppato nel freno per attrito. E’ immediato rilevare come il pericolo maggiore sia quello del raggiungimento di una temperatura prossima a quella di evaporazione: il passaggio di stato del liquido, con formazione di bolle di vapore, provocherebbe un brusca caduta dell’efficienza frenante, con risultati assai pericolosi. E’ evidente allora perché non si usi semplicemente acqua, ma una miscela glicolica, dotata d’elevato punto d’ebollizione e di proprietà lubrificanti per le parti mobili, senza peraltro risultare aggressiva o corrosiva per gli anelli di tenuta in gomma e le parti metalliche. Purtroppo questa miscele hanno la spiccata tendenza all’igroscopicità, vale a dire ad assorbire umidità dall’aria:attraverso le giunzioni dell’impianto e i serbatoi di recupero, una certa percentuale passa progressivamente in soluzione deteriorando le caratteristiche del fluido, in particolare abbassando il punto di ebollizione (normalmente superiore ai 200°C) avvicinandolo pericolosamente a temperature inferiori a quelle di esercizio del freno. Seguendo la classificazione introdotta dallo statunitense Department Of Trasportation, i liquidi per circuiti idraulici vengono identificati dalla sigla DOT seguita da un numero (3,4 o 5), proporzionale al livello qualitativo. Mentre il DOT3 è dedicato alle applicazioni generiche e il DOT4 è quello comunemente usato sugli impianti ad alte prestazioni come quelli motociclistici, il DOT5 con le sue varianti è espressamente dedicato alle competizioni. La sua composizione è sintetica (la variante DOT5.1 è invece glicolica) le prestazioni in riferimento alla temperatura di lavoro sono eccellenti (temperatura di vapore = 260°C), ma patisce un rapido deterioramento che ne esclude l’utilizzo sui mezzi di serie: i fluidi di tipo DOT3 e DOT4 hanno una temperatura di vapore più bassa (205°C e 230°C), ma minore igroscopicità. Per caratterizzare la caduta di prestazioni dei fluidi igroscopici se ne definisce un punto di ebollizione minimo “in umido”, vale a dire in presenza di elevate percentuali di acqua (3.5% H20): per le tre categorie sopra descritte tali valori valgono rispettivamente 140°C, 155°C e 175°C, dunque un DOT5 inquinato dal 3,5% di acqua è assai più pericoloso di un DOT3 nuovo e quindi puro.
IL CIRCUITO IDRAULICO
Si è evidenziata chiaramente nelle righe precedenti l’importanza del mantenimento della pressione nell’impianto durante l’esercizio. Un anello debole della catena è sicuramente il circuito vero e proprio: questo può essere costituito da elementi metallici rigidi, ma necessariamente deve presentare delle porzioni flessibili, quantomeno per seguire l’escursione delle sospensioni e i movimenti dello sterzo. E’ evidente che le tubazioni devono coniugare una carta flessibilità con adeguata resistenza alla pressione, al fine di garantire la minima dilatazione possibile. Diversamente si avrebbe il cosiddetto “effetto polmone”, vale a dire una risposta elastica del circuito in pressione con conseguente caduta dell’efficienza franante. Nella forma più elementare le tubazioni sono in gomma rinforzata e d’elevato spessore; tuttavia le migliori prestazioni si hanno con le cosiddette tubazioni aeronautiche, contraddistinte da un elemento interno in teflon e una calza esterna in treccia di acciaio inox cui è demandato il compito di contenere la dilatazione. Le moderne tecnologie hanno permesso di realizzare nuovi tipi di tubazioni caratterizzati da rivestimenti in fibre aramidiche (Kevlar®) oppure a base di fibre di carbonio. Tali componenti assommano ad una dilatazione limitata elevate caratteristiche di leggerezza e resistenza alle sollecitazioni e all’abrasione.